The Suicide Machines – Revolution Spring – Fat Wreck Chord

The Suicide Machines – Revolution Spring – Fat Wreck Chord

Scrivere la recensione del nuovo album dei Suicide Machines non è compito da prendere alla leggera, per due motivi connessi tra loro.
Il primo è che la band di Detroit non pubblica qualcosa dal lontano 2005, quando aveva rilasciato War Profiteering Is Killing Us All prima di sciogliersi (o andare in iatus, come dicono gli ammericani). Il secondo motivo è che i lavori più validi della band risalgono agli anni 90. In particolare il debutto Destruction By Definition può essere considerato un capolavoro nel suo genere, purtroppo spesso trascurato (trovi qui la recensione di DBD per la nostra rubrica Underdogs).

Il pregio dei Suicide Machines è sempre stato quello di creare un mix perfetto tra skate punk, ska e hardcore che, nonostante gli svariati cambi di formazione, è riuscito a diventare il loro marchio di fabbrica.
I Suicide Machines del 2020 vedono stabile nella formazione il vocalist e fondatore Jason Navarro (e non poteva essere diversamente), che continua a contribuire con il suo stile a rendere immediatamente riconoscibile un loro brano.
Il grande assente è Dan Lukacinsky, chitarrista e secondo vocalist che alternava il suo cantato più melodico/clean all’urlato di Jason. A sostituirlo è Justin Malek, che però si occupa solo di suonare. Al basso e batteria rimangono i membri che già avevano suonato agli inizi degli anni 00: rispettivamente Rich Tschirhart e Ryan Vandeberghe.
Una cosa è certa: se non hai un cognome strano, non puoi suonare nei Suicide Machines 🙂

Revolution Spring si presenta molto bene: copertina con logo/personaggio storico, 16 brani e durata complessiva di 34 minuti: tutti fattori che fanno sperare in una continuità con i lavori migliori.
In effetti, anche musicalmente, il disco porta in sé tutti gli elementi del sound caratteristico della band: gli brani anthemici (Awkward Always, Anarchist Wedding), lo ska in minore (Babylon Of Ours), i pezzi ska nella strofa e punk nel ritornello (To Play Ceasar, Empty Time), l’hardcore tirato (Flint Hostage Crisis). Mancano forse le sfuriate cattivissime in cui Jason diventa indemoniato ma va bene così (vai ad ascoltarti Capsule da War Profiteering… oppure DDT da Battle Hymns: quella sì che è roba pesante!).
I testi sono ovviamente politicizzati, come dovrebbe essere in un loro album, ma alcuni scendono anche nel personale.
Vera punta di diamante è il bassista Rich, che sostiene tutto il lavoro dei compagni ed è a mio parere annoverabile tra i grandi alle 4 corde nel genere.

Questo nuovo album non porta con sé quasi nessuna novità ma di certo non era quello che ci si aspettava né desiderava. Al contrario, in alcuni momenti si ha come la sensazione di “già sentito”, ma non si scade mai nell’autocitazione palese.
La band riesce, dopo una pausa di 15 anni(!), a mantenere il proprio sound come quello dei vecchi tempi e questo è già di per sé un risultato sorprendente, migliore delle aspettative! Il fatto poi che i pezzi siano molto buoni, senza però arrivare all’eccellenza nel complesso, rende tutto ancora più figo.
L’album spacca: non si poteva chiedere di più!

Frankie

Tracklist:
1. Bully in Blue
2. Awkward Always
3. Babylon of Ours
4. Flint Hostage Crisis
5. Play Caesar
6. Trapped in a Bomb
7. Detroit is the New Miami
8. Eternal Contratian
9. Well Whiskey Wishes
10. Black Tar Halo
11. Empty Time
12. Impossible Possibilities
13. Potter’s Song
14. Simple
15. Anarchrist Wedding
16. Cheers to Ya

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