Smashing Pumpkins-CYR-Sumerian Records
Questo nuovo disco (l’undicesimo) degli Smashing Pumpkins è fortemente emblematico, a tratti indigesto, eccezion fatta per qualche riff e alcuni ritornelli ben fatti.
Ma di grandi pezzi, diciamocelo, non c’è neanche l’ombra.
Intendiamoci, chi scrive non è di certo un fan sfegatato della band di Chicago, ma è anche vero che fino al doppio concept di ‘Machina’ la band aveva sempre tirato fuori dalla manica i propri assi, in seguito si era sviluppata una vena maggiormente sperimentale e (forse) sempre più fan-oriented ma sempre con un certo gusto.
L’album precedente, ‘Shiny And Oh So Bright Vol.1 – No Past. No Future. No Sun’, mi aveva coinvolto non poco, anche sull’onda di singoli azzeccati e in perfetto stile Smashing Pumpkins, in particolare quella ‘Silvery Sometimes (Ghosts)’ che, certo, sarà pure stata ricalcata su carta carbone dalla loro storica ‘1979’, ma aveva il suo perché e si faceva ascoltare a ripetizione.
Questo ‘CYR’, fuori per Sumerian Records, invece, non ha un singolo definibile come tale.
Potremmo stare qui a soffermarci sul fatto di fare uscire, nel 2020, un album con 20 pezzi (VENTI) della durata media di 3 minuti e mezzo/4 minuti l’uno, sul fatto di aver confezionato un album synth-pop pesantemente synth e non troppo pop, sul fatto di avere in squadra uno dei migliori batteristi della scena alternativa ma ridursi a fargli suonare dei ripetitivi tu-tupàh imbalsamati che sembrano usciti da qualsiasi disco di inizio anni ’80 di una qualsiasi band misconosciuta agli esordi.
Ma sappiamo benissimo che, come e forse più degli altri, questo sia al 100% un disco di Billy Corgan e non di una band a tutti gli effetti.
Se è vero, come dicevano in tempi non sospetti i Nofx (nel testo di ‘San Francisco Fat’), che a Los Angeles gli ego delle persone si ingigantivano come quello di Billy Corgan, a questo giro non è stato sicuramente da meno.
I pezzi meno indigesti e salvabili si trovano tutti nella prima facciata (a mio parere): l’opener ‘The Colour Of Love’ sembra una versione sbiadita e annoiata di ‘The Forest’ dei Cure, ma almeno gira, la title-track è quasi un plagio del singolo (osceno) che aveva tirato fuori un paio di stagioni fa Noel Gallagher, quella specie di new wave-electro pop senza arte né parte, talmente asettico che non riesco neppure a ricordarmi il titolo.
Ed è il destino a cui andrà incontro questa (ennesima) opera megalomane e sperimentale di Corgan: tolta la sua fanbase storica e consolidata (personale, su quella della band ho delle riserve), questo sarà un album destinato a finire velocemente nel dimenticatoio.
L’unica cosa che erge questo lavoro su altri del genere è ovviamente la sua voce, perché immediatamente riconoscibile, ma a livello di songwriting e consistenza dei pezzi, davvero poca cosa.
Non mi stupirei se fosse l’ultimo disco in studio del capitolo Smashing Pumpkins.
TRACKLIST: