Live Report: Fest22 @ Gainesville, Florida
19 Aprile 2019, l’ultima volta negli USA.
Fino a qualche tempo fa ancora avevo le etichette attaccate al bagaglio. Le avevo lasciate li un po’ per nostalgia e un po’ per mantenere viva la speranza di tornarci presto. Col senno di poi, forse un sinistro ed inconsapevole presagio.
Ci ero stato diverse volte e sempre per lavoro, mai da turista. A dirla tutta mi piaceva che le cose stessero così, mi sentivo più local a dovermi alzare anche io la mattina per lavorare, leggere un giornale davanti a un bagel e ad un caffè e finire la giornata a guardare qualche partita al bar in compagnia di qualche collega e di una Coors Light ghiacciata. Avere una routine come tutti mi faceva sentire più dentro quel sogno americano che avevo idealizzato fin da bambino. Chissà poi com’era nato tutto… ogni tanto me lo chiedo ancora. Questa passione che ho da sempre non la so spiegare, non so se ha senso e non mi aspetto che venga capita; so solo che io con gli USA ho qualcosa a che fare. Sto bene quando mi ci trovo.
Poi il mondo è andato a rotoli, e con lui anche il mio lavoro. Un sacco di altre cose.
In America non ci sono più tornato e ad un certo punto le etichette sono sparite dal bagaglio.
Negli anni mi sono riempito la casa di roba che ho comprato/trovato/conservato durante i miei viaggi, dalle cose più normali, come i biglietti degli Orioles, la Souvenir Cup dell’M&T Bank Stadium o lo speciale USA Today per la rielezione di Obama, a quelle più stupide, tipo i sottobicchieri fregati da Outback o il menu del leggendario Pappas di Cockeysville (le Crab Cake preferite di Oprah!). Insomma, un personale microcosmo che mi ha aiutato a tenermi vicina una terra che amo, ma sempre tanto lontana.
Più di una volta ho pensato di organizzarmi per tornarci, ma non l’ho mai fatto. Forse perché un viaggio in America per me non può essere fine a se stesso. Nella mia patologica fissazione ho bisogno di legarlo a qualcosa di più significativo, importante.
Ed effettivamente qualcosa in sospeso mi era rimasta.
Esattamente vent’anni fa ero alle prese con una delle fasi più difficili della mia vita e ne sono uscito anche grazie al buon vecchio punkrock.
Mi è sempre piaciuto spendere soldi in edicola, è un altro dei miei inspiegabili guilty pleasures come andare da Blockbuster solo perché – cazzo – mi piaceva andarci, e quel pomeriggio di giugno, fuori dall’ospedale di Bergamo, ho comprato un numero di Rock Sound con allegato il DVD integrale del Vans Warped Tour 2003.
MAGIA.
Ho guardato e riguardato quei filmati fino allo sfinimento, per diverso tempo. Avevo mandato a memoria le interviste, mi colpivano tutti i personaggi e i retroscena raccontati dagli organizzatori, i rapporti che c’erano tra le diverse band, l’energia delle esibizioni (non che li abbia mai amati troppo, ma la mia preferita era senz’altro quella dei Rufio). L’atmosfera che si respirava, lo spirito di un evento del genere era arrivato ad essere praticamente palpabile ai miei sensi.
Quell’estate ero stato al Deconstruction Tour. Stupendo, ma quella la era una cosa diversa. Era ancora meglio.
Dovevo andarci… ma come?
Avevo pochissimi amici che come me erano appassionati e ad un evento del genere non ci vai da solo. Le finanze di un teenager poi, beh… diciamo che quando riuscivo a comprare una felpa da Treesse poi mi sentivo in colpa per una settimana.
Mi mancava il gruppo giusto e non avevo soldi: mancavano le basi insomma o forse non era il momento. Al Warped Tour non ci sono mai andato (e vedendo com’è diventato poi… meno male!), ma quel sogno è rimasto sempre li.
Vent’anni dopo tutto questo è un messaggio di Sofia Cookie a sbloccarmi tutto: “Con Warholsss stiamo creando un gruppo Whatsapp per gente che vorrebbe andare al The Fest, secondo me ti interessa”.
Il gruppo è quello giusto, e anche se non sono Zio Paperone un viaggio del genere posso farcelo stare… un po’ forse me lo merito anche.
È la mia occasione di chiudere il cerchio e martedì 22 ottobre 2024 sono in partenza per la Florida.
Milano-Madrid-Miami e, dopo un giorno cuscinetto nella Vice City, ci mettiamo alla guida per raggiungere Gainesville. Cinque ore di highway.
Così come Batman si spiega capendo Gotham, il The Fest si spiega a partire da Gainesville. Non è la città che ha accettato l’evento, è l’evento stesso che è nato dalla città e solo li poteva nascere. È una riflessione che ho maturato durante tutta la durata del festival e penso di averne trovato conferma direttamente dalle parole di Chuck Ragan, quando durante il secondo spettacolo degli Hot Water Music nella stupenda Bo Diddley Plaza ha ringraziato la città di Gainesville per essere “Supporting, open minded and understanding”. Girando per la città non si può non restare colpiti dell’accoglienza e della curiosità della gente che la abita. Aggiungiamo una naturale inclinazione generale verso il punkrock ed otteniamo il The Fest. Semplice, no?
A Gainesville succede che il riconoscimento delle chiavi della città venga conferito ad una band come gli Hot Water Music. Quante istituzioni riconoscerebbero un’onorificenza del genere ad una punk band?
A dirla tutta, è proprio da qui che inizia la nostra avventura: appena prima di entrare a Bo Diddley Plaza per il Fest Warmup Show del giovedì sera incontriamo Chris Cresswell con ancora in mano la pergamena. Il suo commento è “that was just crazy…”.
PRE FEST
Aprono le danze i Cloud Nothings, band che in tutta onestà non mi fa proprio impazzire. Fanno il loro, ma io rimango troppo galvanizzato da tutto quello che mi trovo intorno. Bo Diddley Plaza è quasi surreale, bellissima. Mi ritrovo in fila per il merch del The Fest prima e per un panino al volo subito dopo. Torno in postazione per l’inizio dello show dei Flatliners e a quel punto ho la mia prima epifania (spoiler – ne avrò almeno una al giorno): sto con gli amici e la mia ragazza in un posto che mi sembra meraviglioso, suonano i Flatliners, bevo la mia Pabst Blue Ribbon e mangio un hamburger che in quel momento mi sembra il cibo migliore dell’universo. Sto bene cazzo.
La band tira in piedi uno show fighissimo, e non lo dico solo perché sto tra le nuvole e pure se avessero suonato di merda mi sarebbero sembrati i Queen a Wembley. Si riconfermeranno anche la sera successiva al Vivid Music Hall come una delle band più cazzute di tutta la lineup.
Conclusione di spessore con Hot Water Music e beh… cosa sto a dire? Io Chuck Ragan lo sposerei. I ragazzi sono in forma, si ripeteranno poi anche nel secondo spettacolo sempre a Bo Diddley Plaza dove sforneranno anche diversi pezzi del nuovo lavoro, Vows, tra cui anche la mia preferita, Fences. Da segnalare comparsate heartbreaking di Chris Wollard in entrambi gli show, completi di belle parole ed abbraccioni (“They had the keys to your hearts, now they have the keys to Gainesville!”).
Sipario.
Faccio un piccolo excursus per chi non dovesse avere chiara la struttura del The Fest: sostanzialmente si tratta di un festival altamente personalizzabile in cui le band della lineup possono suonare anche più di un concerto durante i tre giorni di durata in location diverse, distribuite in una zona più o meno circoscritta della città di Gainesville. Chi decide di parteciparvi, una volta uscita tutta la lineup e la preziosissima app, deve in qualche modo costruirsi le sue giornate in base ai tempi e alle band che vuole vedere oppure può scegliere di farsi guidare dal caso, entrando nei locali e lasciandosi sorprendere da chi sta suonando completamente alla cieca. Vi assicuro che anche questa è un’esperienza da provare.
GIORNO 1
Il primo giorno di festival ufficiale per me lo aprono i Wolf Face all’Heartwood, bella location all’aperto che mi fa sentire pure un po’ a casa perché è proprio uno spazio simil Low-L Fest. Il quartetto propone un onestissimo punkrock melodico e nel look si ispira chiaramente al lupo mannaro di Voglia di Vincere. Chi mi conosce sa che a questo punto potrei già sciogliermi, ma in realtà la chicca vera la trovo al banchetto del merch: i regaz hanno fatto il loro videogioco. Ed è una cartuccia funzionante per il Nintendo NES. Prendete i miei 50 fottuti dollari, band rivelazione di giornata.
Rimango all’Heartwood per i Codefendants. Non sono una band che attendo particolarmente e anche se devo riconoscere un certo valore artistico ed uno show più che rispettabile, non sono il mio. Sono comunque contento di averli visti.
La tappa successiva è il Wooly, piccolo live club al chiuso che guadagnerà poi diversi consensi all’interno della nostra ciurma, dove suonano i Reconciler. Il buon Warholsss me li ha segnalati ed avevo in passato tentato di accaparrarmi – senza riuscirci – il loro ultimo disco per recensirlo. Show onestissimo, band convincente. Non sono proprio diciamo nel fiore degli anni – nemmeno il pubblico che ho visto in giro finora a dire il vero – ma sono fighi e la portano a casa egregiamente. Ci tornerò sopra.
A questo punto ci trasferiamo al Vivid Music Hall, un live club molto più cool che sarà ribattezzato “i Magazzini Generali di Gainesville”, dove incontriamo il primo vero main act di giornata: The Copyrights. La band soddisfa pienamente tutte le aspettative, il pubblico è molto coinvolto e comincio a vedere le prime Pabst esplose in mezzo al pit e lanciate in aria per poi cascare in mezzo alla gente. Il Vivid offre una location di ottimo livello, ma la resa audio – non so se per l’acustica del locale o per qualcosa di più tecnico – non va di pari passo, situazione che avrà ben poche eccezioni anche nei giorni a venire (si salveranno solo Flatliners, anche se con volumi esagerati, e Chuck Ragan). Verso metà concerto mi sposto in piccionaia, dove si percepisce anche meno l’effetto dell’aria condizionata veramente selvaggia presente nel locale, e con la mia fedele Liquid Death ho modo di scambiare quattro chiacchiere sul concerto con uno sconosciuto che si rivelerà poi essere anche lui un writer per Dying Scene. Ci scambiamo i contatti Instagram e così a tradimento mi prende un’altra specie di epifania: sto in un bel locale, mi godo da una bella posizione un concerto dei Copyrights, un drink fresco e la compagnia di uno sconosciuto che a sorpresa si rivela una conoscenza interessante e gradevole. Sto bene cazzo, un’altra volta.
Finiti i Copyrights mi trasferisco di nuovo all’Heartwood per gli Iron Roses. Essendo da tempo un discreto fan dei Boysetsfire, sono curioso di vedere cosa combina Nathan Gray con questo nuovo progetto. Direi molto meglio dal vivo che su disco, dove comunque li avevo apprezzati abbastanza senza però gridare al miracolo. Esce sempre fuori il suo carisma, anche durante il bel discorso che incasella sul potere della musica. Fun fact, i genitori di Nathan sono entrambi presenti al concerto e sono svaccati su due sdraio proprio dietro di me!
Continua all’Heartwood la mia – ormai – serata con i Further Seems Forever, che rappresentano secondo me il momento nostalgia per i presenti. La band è a secco di pubblicazioni da un po’ di tempo ed essendo stati tra i protagonisti dell’ondata emo dei primi anni 2000, anche per me costituiscono un throwback notevole. Attaccano con Pride War che è uno dei miei loro pezzi preferiti ed è subito lacrima. Performance purtroppo costellata di problemi tecnici soprattutto alla voce (a dire il vero erano già iniziati con gli Iron Roses). Peccato!
Concludo il bottino della prima giornata con il ritorno degli Hot Water Music a Bo Diddley, ma di questo ho già parlato. Li andrei a vedere pure un’altra volta.
GIORNO 2
Il day #2 inizia un po’ in sordina, ci siamo svegliati alle 6:00AM per raggiungere Crystal River e farci una mattinata di snorkeling coi lamantini. Mi perdo qualcosa della mia programmazione, ma nulla che non possa recuperare l’indomani, quindi si parte subito infuocati con A Wilhelm Scream al Wooly. È la loro dimensione: locale non grandissimo, no barriers. Set “half and half” tra roba vecchia e più nuova (segnalo The Horse, che non fanno tanto spesso ed è uno dei miei pezzi preferiti). Si tratta del mio primo full capacity show di tutto il festival: la fila per entrare è davvero lunghissima ma fortunatamente essendo in possesso di un pass salta fila riesco a godermi praticamente tutto lo show.
La situazione si ripete subito dopo al Backyard con i Dopamines, altra mina super attesa.
Il Backyard è forse la location più particolare che ho incontrato: si tratta praticamente del retro di un altro locale, il Palomino. É una location all’aperto, ma è talmente stipato che la sensazione è quella di essere al chiuso. Si scatena l’inferno. Mi sono perso la prima esibizione della band dell’Ohio al Vivid (dove una carrambata di Tony Foresta alla voce è finita con un cestino della monnezza gettato sulla folla dal palco) e sembra che nonostante i già citati limiti della venue, i quattro l’abbiano portata a casa clamorosamente bene. Non posso che dire lo stesso dello show al Backyard: spettacolo totale e stavolta si sente anche bene.
Il programma della giornata prevede ora i Tightwire al Wooly. La band è orfana di un membro e qualche giorno prima dell’inizio del Fest ha rivolto, tramite i suoi canali social, un appello a chiunque fosse in grado di suonare qualche loro pezzo alla chitarra: inviando un video che provasse l’effettiva bontà del candidato era possibile raggiungerli sul palco per suonare il pezzo con loro. Che figata cazzo!!! Peccato non aver avuto il tempo di prepararsi un po’… ad ogni modo lo show conferma la gasa che già avevo per loro. A me sembrano un po’ i figliocci degli Allister in qualche modo. Immenso SI.
Si resta al Wooly per una band più o meno sorpresa: i Bollweevils. Mi erano stati segnalati tempo prima e li avevo ascoltati un po’ per farmi un’idea: la band è in giro da una cosa come 35 anni e se il loro fisico non può che darne conferma, sul palco non hanno nulla da invidiare alle band più giovani. Pezzi belli veloci e cazzuti, direi quasi melodic hc, intermezzati – si…magari anche per prendere un po’ di fiato – da alcuni siparietti improvvisati magistralmente dal cantante della band che in più di un’occasione esegue la performance direttamente dal pit. Band rivelazione del day 2.
Inizia a farsi buio e dopo un paio di slice da Five Stars Pizza faccio ritorno all’Heartwood per i Mustard Plug. Quest’anno il Fest è davvero pieno di band ska (nel day 2 ho visto anche i Kill Lincoln ma… ne parleremo meglio nel day 3) e i Mustard Plug sono tra i veterani della situazione. I problemi che avevano afflitto le altre band all’Heartwood non sembrano essere così incisivi stavolta e il set fila via liscio con la gente che sembra aver dato inizio ad una festa sotto il palco. Bene, ma nulla che mi abbia impressionato esageratamente (forse è anche una questione di gusti).
Ultima tappa a Bo Diddley per una delle band più attese dei tre giorni: Bouncing Souls performing Gold Record and Hopeless Romantic in their entirely! Sarò sincero: non li avevo mai visti e non ho un termine di paragone col passato, ma mi sembra di percepire un certo “effetto Millencolin”. Mi spiego meglio: la band nordeuropea è famosa per portarla a casa tranquillamente sempre e comunque nonostante delle esibizioni spesso penose. I Bouncing Souls, al contrario, suonano bene, professionali, da disco ma… that’s it. Mi è mancata un po’ l’energia, sarebbe bastato qualche movimento in più per tenere un po’ meglio il palco ma ad ogni modo suonando quei due dischi la portano a casa facilissima ed egregiamente. Folla impazzita, va bene così.
GIORNO 3
Siamo già al day 3. È incredibile come si siano già fatte un milione di cose ma si abbia comunque l’impressione di essersene perse altrettante… credo sia un po’ l’effetto The Fest anche questo.
La giornata inizia presto coi Soul Glo a Bo Diddley Plaza. È la 1:40PM e il sole è completamente a picco sul pit e sul palco, il che rende ancora più incredibile quello che la band sta facendo vedere. Show pazzesco, senza esclusione di colpi. Peccato sia l’unica esibizione prevista per loro: in un locale più piccolo ci sarebbe stato un vero macello.
Torno al Backyard per un’ultima volta a gustarmi i Kill Lincoln. La band Ska-core è un vero missile impazzito: tecnicamente ci sanno veramente fare. Sempre frizzanti e mai sottotono offrono uno show che mi ricorda in tutto e per tutto quello che vedevo nei vecchi DVD del Warped: l’atmosfera è decisamente quella. Band rivelazione dell’ultimo giorno.
Faccio una sosta prolungata al Backyard per Big D And the Kids Table, non un appuntamento imperdibile ma anche loro credo abbiano un anniversario da festeggiare e c’è una gran fotta tra il pubblico. Spettacolo piacevole.
Ora tocca ai Touché Amoré, e Bo Diddley Plaza si tinge di un’atmosfera strana per essere metà pomeriggio: ho l’impressione che il sole sia più basso di quello che dovrebbe, offrendo una luce particolarissima che si sposa perfettamente col mood della band Californiana. Direi molto bene, li vorrei rivedere di sicuro.
Parentesi romantica al Vivid Music Hall dove Chuck Ragan and the Camaraderie mi regalano la mia terza ed ultima epifania: sempre dalla piccionaia del locale (non voglio crepare per shock termico) su The Boat abbraccio la mia ragazza da dietro mentre segue il concerto appoggiata alla ringhiera. Sono in grado di sentire il suo respiro. Sto bene cazzo, non vorrei proprio andarmene.
Ci dirigiamo verso il Loosey’s per concludere la nostra serata ed anche il nostro Fest con l’infornata delle quattro band italiane in cartellone. Cominciano i Cocks, che mi sembrano la band giusta, al momento giusto, nel posto giusto. Non sbagliano nulla: tra le quattro, credo la band meglio preparata di tutte. Loyal Cheaters dalla riviera alla Florida, sono la band che ha sulle spalle più concerti negli States (potrebbe essere che siano ancora la mentre scrivo questo report) e sono ormai a loro agio in questa situazione. La portano a casa egregiamente lasciandosi andare anche ad alcune coreografie d’altri tempi…moooolto bene! Regrowth dalla Sardegna, a mio parere la band che si è trovata nella situazione più complicata di tutte. Il loro metalcore non è tipicamente materiale da The Fest e in tutta onestà sono forse anche i meno conosciuti da noi supporter italiani presenti. Per questi motivi, e per aver comunque spaccato il culo e fatto divertire anche tutto il pubblico di locals, la band che mi ha gasato più di tutte. Scheletri con cambio di rotta, ora con una sola chitarra, chiudono in bellezza con uno show inaspettatamente fisico (avevo parlato di loro qui e all’epoca era tutto il contrario!), forse addirittura un po’ troppo (con un frontman così in palla il rischio è quello di far passare il resto della band troppo in secondo piano). Ci può anche stare: provate voi a contenervi quando state a suonare negli States per la prima volta…
Jen Pop è presente al Loosey’s fra il pubblico per assistere alle esibizioni delle band italiane. Riesco ad intercettarla per farci quattro chiacchiere e con mio vero piacere viene fuori che si ricorda di Irritate People e della data a Granozero che avevamo aiutato a tirare in piedi. Direi un ottimo modo per chiudere in bellezza una tre giorni veramente pazzesca.
29 ottobre 2024, ultima volta in USA.
Mentre iniziamo a sparire tra le nuvole del cielo di Miami ho la testa piena di cose. So che dovrò metterle in ordine per includerle in un live report ed ho già l’impressione che, comunque venga, un pezzo del genere mi sembrerà estremamente riduttivo, ma non me ne preoccupo troppo. Anzi, per niente.
Per la prima volta dopo tanto tempo mi sento semplicemente sereno.
Gainesville mi ha lasciato tanto e so già che l’influenza del suo prezioso way of life farà la differenza nelle mie giornate da oggi in poi.
Le etichette, a questo giro, le ho tolte subito dal mio bagaglio.
I’ll be right back.
Stavolta lo so.
Reeko