Intervista a Gab De La Vega

Intervista a Gab De La Vega

Quattro chiacchiere col mitologico Gab de La Vega, tra nuovo disco, Toronto e Brescia, film e libri, acustico ed elettrico…

In questa intervista per consuetudine ho unito cuore e irritevolezza perchè, come diceva Lester Bangs:”Il punk è starsene da soli in una stanza semibuia rimpiangendo di non avere del Valium, con un disco insignificante in sottofondo, con una gran voglia di strappare via a unghiate l’imbottitura della poltrona, ma sentendosi la frivolezza sotto le unghie

E credo, a intuito volpesco, che Gab De La Vega sia assolutamente in linea con dato pensiero, solo che il suo ultimo Lp Life Burns (recensito qui)è tutto fuorchè insignificante.

Gab potresti, in quanto mastermind sia del tuo progetto cantautoriale che come super capo supremo di Epidemic Records, buttar giù due parole per presentarti così come sei?

Sono Gab, sono nato a Brescia, sono cresciuto a pane e musica. Ad un certo punto ho incontrato il punk, l’hardcore e da lì ho iniziato a suonare e fare tour come musicista e fare uscire dischi con Epidemic Records. Poi mi sono ricordato che potevo fare qualcosa di diverso e ho iniziato a suonare in acustico, ma sempre vivendomela come se fosse un progetto punk, sebbene influenzato da sonorità diverse.
Questa cosa è cresciuta sempre più fino a portarmi ad includere altri tre musicisti (The Open Cages) e pubblicare 4 album, il cui ultimo, Life Burns, è uscito per SBÄM Records, Sell The Heart Records, Epidemic Records, Motorcity Produzioni e Overdrive.
Con Epidemic Records cerco di dare spazio e voce a band che sento affini, vicine e che penso meritino di crescere ed essere ascoltate il più possibile.

Quando hai iniziato a suonare e, soprattutto, quale delle tue canzoni è stata la prima che hai sentito potesse funzionare per raccontare una storia?

Sebbene non sia stata la prima canzone pubblicata, penso che “Song of Resistance”, la prima traccia del mio primo full length, fosse il brano che più mi rappresentasse in quel momento e che allo stesso tempo fosse in grado di raggiungere le persone. Anche “Against The Grain”, dal secondo album ha avuto un significato simile. Però se parliamo della prima, direi che “Song of Resistance” fosse quella che più mi ha dato questa sensazione per prima.
Life Burns mi sembra un disco ricco di una serie di spunti personali dove la teoria, fatta alla grande, ha lasciato spazio alla pratica e al sentimento nel raccontare pezzi di vita.

A me il tuo disco è arrivato tantissimo sia nella sua ricerca di certosina precisione sia nello storytelling. Me ne parli un po’?

Life Burns è l’album più onesto, senza filtri e libero che abbia mai pubblicato. Forse è una normale evoluzione, ma sentivo di dover dare voce a tantissimi pensieri, sentimenti, sensazioni e idee che mi ribollivano dentro. Ho pensato che dovesse essere una fotografia definitiva e realistica di quella fase della mia vita. Una sorta di testimonianza. Se in fase di produzione niente è stato lasciato al caso, nella scrittura dei brani invece ho dato libero sfogo a tutto ciò che sentivo, senza pormi limiti. Credo che la forza stia proprio in questo: la produzione è riuscita ad esaltare la spontaneità del songwriting.

Nel tuo sound è palese la radice punk, quali sono le tue band di riferimento? Le robe imprescindibili anche mezze sconosciute vanno più che bene!

Ti lascio immaginare per questioni anagrafiche cosa ho ascoltato nei miei primi anni di punk. Il giorno d’oggi e soprattutto ultimamente alcuni gruppi punk e dintorni che mi piacciono tantissimo sono The Dirty Nil, The Flatliners, Against Me!, Bad Nerves, Jaguero, Conservative Military Image, Single Mothers, Grade 2, PUP, High Vis, Mercy Music, Militarie Gun, Teen Mortgage… rischio di fare un elenco lunghissimo e sicuramente appena pubblicata questa intervista mi ricorderò di cose stupende che sto ascoltando e che non ho incluso. Tutti questi sono consigliatissimi.

A me piace tantissimo The Bitter Taste of Dreams, settima traccia dell’ album. Là dentro percepisco molto risentimento per se stessi; soprattutto la parte in cui affermi che quando canti si sente il tuo accento, ma che comunque fa parte di te. Da laureata in lingue -che ha fatto dello studio degli accenti una propria cifra- devo dirti che non si sente affatto, ma capisco bene cosa intendi; mi racconti un po’ questa canzone?

Anche io sono laureato in lingue straniere, coincidenza! Liberarsi del proprio accento è quasi impossibile a meno che si studi dizione (come fanno alcuni attori) e in ogni caso, quella sarebbe una forzatura. L’accento è parte dell’identità di una persona e della sua storia. Quando parlo in inglese con qualcuno spesso mi chiedono di dove sono o se ho vissuto in questo o quel Paese. Il mio accento è veramente strano in quel senso e spiazza spesso i “native English speakers”; tra le varie cose risente parecchio del mio legame familiare con il Canada (una parte della mia famiglia è di Toronto quindi tra visite, viaggi, telefonate ecc, talvolta mi rendo conto che dopo un po’ assumo per esempio la famosa “canadian raising” o altre caratteristiche tipiche di quell’accento.)
Parlando del brano: diciamo che mi piaceva l’idea di ironizzare su cose che per un certo periodo della mia vita sono state fonte di frustrazione o di “fatica”. Ho provato a scrivere un brano che esorcizzasse questo tipo di pensieri o sensazioni e devo dire che mi aiuta sempre a mettere tutto in prospettiva. C’è stato un periodo della mia vita in cui effettivamente i sogni avevano un sapore amaro. La vita, per varie vicissitudini non proprio semplici da discutere in un’intervista, mi ha insegnato alcune lezioni difficili ma che reputo importanti e ho così deciso di scrivere questa canzone. Accettare che le cose sono in un certo modo e saperci ironizzare o anche solo parlarne è un grande esercizio. Sono contento di aver scritto “The Bitter Taste of Dreams”, mi aiuta sempre a ancorarmi alla realtà e a dare prospettiva alle cose. E suonarla con la band mi piace un sacco!

A proposito di radici reali e non, ti va di parlarmi di dove ti sei sentito più a casa, non solo a Brescia, eh!

Brescia è casa. Qui sono cresciuto e qui vivo. Qui ho la mia famiglia più stretta e gli amici veri, quelli che contano tanto.
Il posto che considero la mia seconda casa è Toronto, dove vive e da dove viene una parte della mia famiglia. É una città totalmente diversa da Brescia, eppure che sento familiare dopo tutti questi anni. Il modo in cui mi sento quando sono lì è qualcosa che non ho provato in nessun altro posto e mi dispiace non riuscire ad andarci quanto vorrei.
Ci sono tante altre città che mi piacciono e dove torno spesso. Mi piace molto Norimberga, la città dove ho suonato la mia prima data fuori dall’Italia con il mio gruppo punk. Avevo 20 anni. Da allora sono tornato in Germania ogni anno per suonare e spesso ho suonato a Norimberga.

Del tour con The Open Cages, siete una bomba, ma c’è altro che vorresti dire? Il tour in acoustico poi…

Il tour full band è andato alla grande e sono contentissimo. Suonare con Simon, Helgast e Edo è un enorme privilegio per me. The Open Cages sono la band che ho sempre voluto: umanamente sono persone stupende, stiamo benissimo insieme, ridiamo come deficienti ogni giorno che siamo in tour, dalla mattina alla notte quando andiamo a dormire. Parliamo di tutto, di cose stupide e di cose profondissime. E poi a livello tecnico, che dire? Sono musicisti incredibili e alzano il livello di tutto ciò che faccio e mi stimolano sempre a dare il massimo.
Queste prime date del tour di “Life Burns” tra Italia, Repubblica Ceca, Austria, Germania e Belgio mi hanno fatto capire che voglio suonare full band quanto più possibile perchè è veramente stupendo.
Per quanto riguarda il tour solista: è una cosa completamente diversa. Mi piace molto suonare in acustico e stare in tour in compagnia di me stesso. Se dovessi scegliere: tour con la band sempre! Però il tour tra Germania, Svizzera e Italia in acustico è andato molto bene, mi aiuta a ricordarmi chi sono e da dove vengo come musicista e un po’ anche come persona (le due cose si sovrappongono spesso fortunatamente). Però chiamatemi con la band che veniamo a tirare giù tutto!

Mi sembri una di quelle persone che hanno sempre in mente sia il riparare le cicatrici sia il costante vincolo con se stessi nel perfezionarsi, quindi ti chiedo: una volta che un tuo disco è stato pubblicato, lo riascolti? Io non rileggo mai quel che scrivo per paura dei refusi sfuggiti quindi non posso dare lezioni a nessuno.

Ti dirò: lo faccio! Lo ascolto in due modi: lo ascolto in veste di chi lo ha scritto, registrato e prodotto e poi provo ad ascoltarlo con distacco, come se fosse il disco di qualcun altro. Mi aiuta a capire cosa funziona meglio e cosa si può migliorare e allo stesso tempo mi aiuta a rendermi conto in maniera tangibile della strada e dei progressi che sto facendo e di ciò che sto costruendo. Non voglio mai dare nulla per scontato quindi ogni tanto questa pratica mi aiuta a percepire quello che faccio in maniera più concreta.

I tuoi testi sono estremamente personali e “Off My Chest” trasmette quella “cosa lì”. Quale parte di te non si vede? Lo so, sto invadendo la tua comfort zone.

“Off My Chest” è un brano estremamente personale e in generale non mi piace essere troppo didascalico quando si tratta di canzoni che interpretano sentimenti, avvenimenti e sensazioni estremamente delicati. Lascio sempre e comunque un margine di interpretazione perchè alla fine se qualcuno dovesse rivederci qualcosa di proprio, anche se magari parlando di una cosa diversissima, per me sarebbe stupendo, perchè quella canzone avrebbe ancora più significato (e significati) rispetto a quello che aveva per me quando l’ho scritta.

La scelta dello straight edge è stata dettata da qualcosa in particolare? Te lo chiedo perché tutte le persone che conosco e che hanno intrapresa questa strada, beh…hanno un passato abbastanza burrascoso e hanno dovuto fare una cesura netta per non rimetterci la collottola.

Semplicemente ad un certo punto mi sono reso conto di aver incontrato uno stile di vita, una scelta, che si adattava alla persona che sono. Non ho mai superato una certa soglia ma allo stesso tempo ho visto quanto sarebbe stato facile farlo. Un passato burrascoso non direi ma nemmeno troppo tranquillo, anzi. Per certi versi forse avrei dovuto evitare certe esperienze. Per come sono fatto io, questa è la scelta migliore per me. Non credo che sia per tutti, ma per me è stata la cosa migliore.

Immancabile nelle mie interviste: libro, disco e film preferiti.

Così su due piedi: non sono i preferiti (perchè è troppo difficile), ma al volo, in questo esatto momento direi: leggete Tranny di Laura Jane Grace, ascoltate Master Volume dei The Dirty Nil (o anche altri loro, band che adoro!) e guardate Back To The Future, sono tutti e tre belli bellissimi!

Dopo aver infastidito Gab gli lascio l’ultima parola ringraziandolo davvero tanto, soprattutto per il tempo dedicatomi.

Grazie per l’interesse, l’intervista, il supporto e la pazienza. Scusa se ci ho messo una vita a rispondere a tutto. Ma ce l’abbiamo fatta!

Gab dal 24 settembre suonerà full band con The Open Cages in Svizzera e Germania: ecco le date! Nel frattempo qui, fra altre cose interessanti, potete ascoltare il suo ultimo fantastico album Life Burns.

Vixen

 

 

 

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